- Gennaio 8, 2018
Libri
Avvistamenti, Migranti (scrittori)
La letteratura migrante nel nostro paese è uscita dalla fase aurorale, in cui aveva interesse solo come testimonianza . Tanto che non appare più corretto chiuderla dentro un genere separato o in un capitolo di storia letteraria.Va bene, i lavoratori extracomunitari, i tanti migranti che affollano il nostro paese sono sia una risorsa (preziosa) che un problema (spesso drammatico). C’è che mi mette l’accento su un aspetto e chi su un altro. Però certamente con loro è nato un nuovo, vitalissimo filone della nostra letteratura, quello dei “migrant writer”. La letteratura migrante nel nostro paese, che risale a quasi 30 anni fa (Pap Khouma, Io venditore di elefanti), è uscita dalla fase aurorale, in cui aveva interesse solo come testimonianza (documento antropologico o testo di denuncia). Tanto che non appare più corretto chiuderla dentro un genere separato o in un capitolo di storia letteraria: i suoi autori semplicemente si mescolano e si confondono con autori nati in Italia e di genitori italiani: vanno letti e giudicati esattamente sullo stesso piano. Sulla via di Berlino del siriano Yousef Wakkas (Cosmo Iannone, pp.124, euro 11) è una ulteriore conferma questo assunto. Certo, un romanzo epico, il viaggio a Berlino passando attraverso la slovenia, un romanzo che in parte si svolge in Siria, tra scene di guerra ( e memorie di guerre lontane nel tempo), campi-profughi, barili di tritolo lanciati da elicotteri, esecuzioni sommarie (un universo orrendo dove tutti tradiscono tutti). Ma la lingua non è quella documentaristica e cronachistica del reportage, e la narrazione è tutto fuorché convenzionale. I personaggi cambiano nome durante il racconto, la storia si riempie di spiritelli, ninfe, angeli della morte. Come nell’Orlando furioso la guerrasi intreccia con una vicenda di amore, o “amorosa inchiesta”, come se fosse raccontata da un cantastorie: lì tra Angelica e Orlando, qui tra Nadia e Milad (poi nell’Ariosto Angelica sposerà un mussulmano!). Il romanzo di Wakkas è realistico e visionario, referenziale (ci sono nomi di luoghi e personaggi reali)e onirico: il capitolo forse più poetico è quello in cui le madri piangono Nadia non perché è morta, ma per piangere il suo futuro, secondo un’usanza che risale agli assiri. E fa benissimo Gabriella Cartago nella postfazione a sottolineare la prosa straniante, quasi espressionista dell’autore (analogamente a tanti altri testi dei migrant writer), che ha scoperto la lingua italiana come un idioma universale: come l’albanese Ornela Vorpsi diceva nel suo romanzo “un dolore aguzzo” così Wakkas scrive di “occhi saccenti” , “angoscia torpida” e “casette che odoravano di abominio”. Poi lì’autore ha spiegato che Nadia è in relatà la sua amata Siria, ma questo è solo un ulteriore piano di lettura che offre ai suoi lettori. (fl)