• Dicembre 13, 2013
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Anci Rivista

N. 11/12 – Come si chiamano gli italiani del XXI secolo

Di Piero Fassino Aprendo questa nostra Assemblea vogliamo manifestare ancora una volta la rabbia e ...
N. 11/12 – Come si chiamano gli italiani del XXI secolo

Di Piero Fassino
Aprendo questa nostra Assemblea vogliamo manifestare ancora una volta la rabbia e lo sgomento per i drammi che si consumano al largo delle coste siciliane.
La nostra coscienza, la nostra intelligenza di individui del ventunesimo secolo non possono accettare queste morti, e non possono ascoltare passivamente il pianto dei sopravvissuti. Abbiamo il dovere di agire perché altre tragedie non abbiano a ripetersi e di sollecitare un impegno europeo e internazionale. Qui, ora, si possono e si devono fermare queste stragi con un’azione politica internazionale forte e per quanto ci riguarda modificando una legislazione lacunosa e  problematica.
Voglio esprimere tutto il nostro sostegno al presidente del Consiglio per le iniziative in corso, la massima vicinanza alla sindaca di Lampedusa e ai sindaci e amministratori che affrontano con le proprie forze e con un grande cuore emergenze straordinarie, dimostrando al Paese come i Comuni e chi li governa sono la base profonda ed infrangibile della solidarietà e della tenuta democratica e sociale. E voglio esprimere vicinanza e gratitudine ai militari impegnati nell’opera di soccorso e ai volontari che si prodigano infaticabilmente per offrire accoglienza a una umanità disperata.
I Sindaci sono i naturali destinatari e interlocutori dei cittadini italiani, che a loro si rivolgono per ogni e qualsiasi esigenza, aspettativa, ansia o speranza.
Da un Sindaco vanno i lavoratori quando vedono messo in pericolo il loro posto di lavoro.
A un Sindaco si rivolgono coloro che guidano un’impresa – grande o piccola che sia – per non esser soli di fronte alle tante asperità della crisi economica.
A noi Sindaci si rivolgono le famiglie per avere asili nido e scuole materne per i loro bambini o assistenza domiciliare e le provvidenze necessarie agli anziani di casa.
E’ ai Sindaci che si chiede tutela per coloro – in primo luogo i giovani – che vivono le tante facce di un precariato a cui la crisi ci ha troppo spesso abituato.
E chi vuole essere sicuro dell’aria che respira, dell’acqua che beve, della terra in cui vive, chiede al suo Sindaco di essere garante di benessere ambientale e di qualità della vita.
E ancora: ai Sindaci si rivolgono i cittadini per chiedere tutela e sicurezza, quando pensano che la loro vita quotidiana sia insidiata dalla illegalità. Ed è dai Sindaci che i tanti “nuovi cittadini” del nostro Paese si attendono politiche di integrazione e uguaglianza di diritti.
E quando la illegalità e la criminalità pretendono di impadronirsi di un territorio, sono i Sindaci il primo baluardo della legalità. Anche mettendo a repentaglio sé stessi, come è accaduto al sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, a cui vogliamo ancora una volta rendere onore.
Insomma: non c’è tema della vita di una comunità che non veda il Sindaco quale naturale riferimento per persone, famiglie, imprese.
E questo spiega anche perché – in un generale clima di sfiducia e diffidenza verso la politica e le istituzioni – i Sindaci siano le figure più riconosciute, che ancora mantengono con i cittadini un legame di rispetto, di fiducia, di credibilità.
Ne è testimonianza il fenomeno – sempre più frequente – di Sindaci che vengono eletti con suffragi superiori a quelli raccolti dai partiti della propria coalizione, a  riprova del fatto che per molti cittadini decisiva è assai di più la affidabilità personale di un candidato che non la sua appartenenza politica.
Abbiamo, insomma, l’orgoglio di essere una risorsa per il Paese. Ancor di più in questa fase di crisi rappresentiamo una risorsa di credibilità, autorevolezza, rigore, concretezza. Valori tanto più necessari in una fase politica e sociale segnata, per molti cittadini, da smarrimento e disincanto.
Per questo abbiamo voluto che lo slogan di questa nostra Assemblea annuale fosse “Il Paese siamo noi”.
Non per eccesso di autostima o per una forma di narcisistico autocompiacimento, ma per ricordare all’opinione pubblica – e  in primo luogo al mondo politico e istituzionale – che senza la passione, la fatica, la generosità, la competenza, la dedizione di tanti Sindaci e di tanti amministratori locali il Paese non sarebbe in grado di reggere le tante sfide che ha di fronte.
Lo diciamo con forza anche perché non possiamo non constatare – con amarezza – che questa consapevolezza spesso non c’è.
E anzi troppo spesso leggiamo sui giornali rappresentazioni di noi che ci offendono. Rappresentazioni che peraltro ritroviamo ricorrenti anche in atteggiamenti di pregiudizio di molte amministrazioni centrali dello Stato che troppo spesso guardano ai  Comuni come  centri di “spesa parassitaria”. Una visione caricaturale che non siamo più disposti ad accettare e chiediamo di abbandonare.
Quando spendiamo, lo facciamo per garantire ai cittadini  asili nidi e scuole materne, assistenza domiciliare, sostegno a persone non autosufficienti e disabili, inclusione sociale, trasporto pubblico, tutela ambientale, promozione culturale.
E quando investiamo, noi non siamo raiders speculativi; i nostri investimenti si traducono in metropolitane, strade, parchi, scuole, biblioteche, centri culturali, impianti energetici, infrastrutture materiali e digitali.
Insomma noi siamo protagonisti quotidiani della vita di questo Paese, ogni giorno lo teniamo in piedi e lo facciamo vivere.
Ed è per questo Presidente Napolitano e Presidente Letta che vi siamo grati.
Perché la vostra presenza qui ci ripaga di tanti momenti di solitudine, di tante incomprensioni, di tanti giudizi sommari e ingenerosi.
Voi, qui oggi, attestate il valore del nostro compito e ci offrite un riconoscimento morale e politico di cui davvero vi siamo grati. E ci auguriamo che il vostro gesto induca nell’opinione pubblica, nel sistema dell’informazione e nelle amministrazioni statali una doverosa e più matura considerazione del ruolo dei Sindaci e del valore dell’autonomia degli Enti locali.
Sì, perché proprio da qui vogliamo partire in questa nostra Assemblea. L’autonomia degli Enti Locali non è espressione di una frammentazione corporativa, ma è condizione per dare ai cittadini una più efficiente e tempestiva risposta alle loro aspettative.
Dobbiamo rifondare un modello di organizzazione della Repubblica, che faccia vivere i valori dell’autonomia e della responsabilità e il principio di sussidiarietà, quale cardine regolativo dell’attribuzione delle funzioni.
L’autonomia è la condizione per esercitare la nostra funzione primaria, costruire una comunità di persone unite da regole di convivenza pacifica, governare i processi sociali, umani e culturali, promuovendo la maturazione dello stare insieme.
Qualsiasi manuale di sociologia peraltro insegna che un tema è più facilmente gestibile in quanto chi lo gestisce sia vicino ai destinatari delle decisioni. Il principio di “sussidiarietà” – sulla base del quale si affida una responsabilità all’istituzione che appare più in grado di onorarla – è d’altra parte criterio ispiratore di ogni moderna architettura istituzionale.
Ma non vi è sussidiarietà, se non si riconosce il valore dell’autonomia, conferendole titolarità di competenze, risorse e strumenti adeguati.
Quel che colpisce è proprio la  regressione che su questo nodo cruciale l’Italia ha conosciuto negli ultimi 10 anni.
Tra la metà degli anni ’90 e l’inizio di questo nuovo secolo, l’architettura costituzionale e istituzionale del Paese aveva conosciuto innovazioni significative: nuove leggi elettorali – tra cui l’elezione diretta dei Sindaci – nuove regole di funzionamento per la pubblica amministrazione, la riforma del titolo V della Costituzione e l’avvio di una stagione regionalista e federalista.
Una stagione svanita rapidamente. La necessità – giusta e ineludibile e per la quale ci siamo sobbarcati oneri e sacrifici notevoli –  di porre rimedio al debito pubblico ha indotto Governi, Parlamento e Amministrazioni statali a ritenere che la strategia più efficace fosse la ricentralizzazione in capo allo Stato di poteri e  risorse.
E la responsabile e altrettanto ineludibile assunzione delle regole dell’integrazione europea – in cui noi crediamo – è stata tradotta arbitrariamente in una continua penalizzazione degli Enti Locali e della loro azione.
Abbiamo così vissuto sulla nostra pelle una sequenza di provvedimenti legislativi e normativi che non solo hanno costantemente ridotto le risorse a disposizione dei Comuni, ma hanno preteso di incidere sull’ordinamento e sull’organizzazione delle nostre amministrazioni,  con prescrizioni spesso umilianti, inutili quando non fonte di costi supplementari. La spending review è divenuta così uno strumento pensato e praticato dalle amministrazioni centrali dello Stato in modo punitivo quando non addirittura persecutorio verso gli Enti Locali. Per non parlare dell’estensione del tutto ultronea ed eccessiva di poteri alla Corte dei Conti e agli organi di controllo, a cui si è concessa un’invadenza  del tutto inaccettabile.
So bene di usare parole aspre. Ma si deve sapere che questo è lo stato d’animo dei Sindaci. Noi siamo persone responsabili, animati da una cultura di governo, consapevoli della necessità di farsi carico degli obiettivi di risanamento economico e finanziario del Paese.
Noi crediamo nell’Europa e non viviamo le sue regole come vincoli opprimenti, ma come condizione per far uscire l’Italia dalle troppe sue criticità strutturali.
Noi siamo ben consci della necessità di perseguire con determinazione la riduzione del debito pubblico – e dunque anche farci carico della riduzione dei nostri debiti – come condizione per liberare risorse per gli investimenti.
Ognuno di noi la spending review la fa tutte le mattine. Lo dicono i fatti.
Di fronte ad una costante riduzione di risorse non siamo stati con le mani in mano. Per garantire che in ogni caso i cittadini non vedessero ridotti i servizi e le prestazioni di cui godono, abbiamo messo in campo ogni  misura utile, riorganizzando le nostre macchine comunali, ricontrattando contratti di servizio e appalti, negoziando con i nostri dipendenti la riduzione di istituti salariali accessori, aprendo le forme erogative dei servizi all’impresa sociale e al  privato, alienando i beni immobiliari, aprendo le nostre società partecipate  a partner privati e alle regole del mercato. E per ciascun di queste scelte non abbiamo avuto paura di scontare incomprensioni e impopolarità.
E quando abbiamo dovuto ricorrere ad aumenti tariffari o a incrementi di fiscalità locale, lo abbiamo fatto in misura inferiore ai tagli subiti.
Non sto dicendo che tutto sia stato fatto. Né che ovunque lo si sia fatto con la stessa determinazione.
Sto dicendo che è manifestazione di pregiudizio pensare che i Sindaci siano amministratori irresponsabili da mettere sotto controllo, quando le amministrazioni comunali sono certamente quelle che di più – in questi anni – hanno operato per eliminare di sacche di parassitismo, sprechi, duplicazioni e inefficienze.
E sappiamo bene che dobbiamo continuare ad agire ogni giorno per dare alle nostre scelte rigore, efficienza, qualità.
D’altra parte la prossimità delle nostre istituzioni ai cittadini è garanzia di maggiore controllo. Quel che accade in un Comune è sotto gli occhi di tutti e la sensibilità dei cittadini – tanto più in tempi di crisi – è tale da sollecitare ogni amministratore comunale ad essere particolarmente attento ad ogni spesa e ad ogni scelta.
Ci piacerebbe davvero dover riconoscere che altre istituzioni pubbliche si sono mosse con la stessa determinazione. Ma si può facilmente constatare che non è così, a partire dalle amministrazioni centrali dello Stato, spesso sorde a qualsiasi riforma e autoriforma.
Per questo rivendichiamo autonomia, quale condizione di efficienza e responsabilità.
Non vi è autonomia senza adeguate risorse e un loro riconosciuto autogoverno.
Veniamo da dodici anni segnati da costante e crescente riduzione di risorse a disposizione degli Enti Locali. Una dinamica che soprattutto negli ultimi sei anni ha assunto dimensioni sempre più opprimenti, caricando sulle spalle dei Comuni oneri finanziari enormi.
Dal 2007 al 2013 i Comuni italiani hanno contribuito al risanamento dei conti pubblici con 16 miliardi di euro:  8 miliardi di contribuzioni del Patto di Stabilità e 8 miliardi di minori trasferimenti statali.
Uno sforzo che ha fatto dei Comuni un “contributore attivo”, visto che quanto le nostre Amministrazioni hanno dato allo Stato è puntualmente superiore all’incidenza percentuale dei nostri debiti sul debito pubblico globale.
Voglio essere chiaro: ridurre il debito, contenere il deficit sotto il 3%, contenere la spesa pubblica corrente – anche la nostra – sono obiettivi che sentiamo nostri. Non abbiamo nessuna nostalgia di inflazione a due cifre e di bilanci fondati sul deficit.
Quel che lamentiamo non è che ci sia chiesto di concorrere al risanamento del Paese. Lamentiamo che lo si sia chiesto più a noi che ad altri. E’ sufficiente comparare la dimensione percentuale dei tagli subiti dagli Enti Locali con quelli richiesti ad altre amministrazioni per verificare lo squilibrio e la sproporzione.
E oggi siamo giunti ad un punto limite.
Tagliare ancora le risorse ai Comuni significherebbe compromettere la possibilità di continuare a erogare servizi essenziali per i cittadini.
Così come mantenere inalterato un Patto di stabilità che da strumento di convergenza si è trasformato in vincolo sempre più oppressivo, significa definitivamente impedire ai Comuni di dare corso a politiche di investimento.
Per questo abbiamo insistito in questi mesi per un “cambio di passo” e l’apertura di una stagione nuova nel rapporto tra Comuni e Stato. E abbiamo apprezzato che il Presidente Letta, nell’incontrare l’Anci il 7 agosto scorso, abbia riconosciuto questa necessità e si sia impegnato a muovere in quella direzione. 
La legge di stabilità che il Governo ha varato nei giorni scorsi è un primo passo in questa direzione e non abbiamo mancato di dirlo.
Dopo anni di manovre fatte solo di tagli e tasse, per la prima volta viene varata una strategia per la ripresa degli investimenti e la crescita. Certo le risorse messe in campo sono inferiori a quelle che sarebbe auspicabile. Ma nessuno può ignorare che quando si ha un debito pubblico che sfiora il 130% del Pil, le risorse assorbite dal servizio al debito e dalla sua progressiva riduzione riducono le disponibilità per investimenti e crescita.
Proprio per questo abbiamo espresso un apprezzamento per la manovra. E vi abbiamo visto primi passi di un diverso atteggiamento verso gli Enti Locali.
L’allentamento del Patto di stabilità per 1 miliardo è infatti una prima buona misura che restituisce ai Comuni spazi per finanziare investimenti. Nella stessa direzione sollecitiamo il Governo – e il Parlamento che dovrà convertire la legge – a superare l’applicazione del Patto per i Comuni inferiori a 5mila abitanti (dove il Patto non ha alcun rilievo nei saldi globali della finanza pubblica, ma costituisce un aggravio opprimente per amministrazioni con ridotte strutture) e a escludere dal Patto le quote di cofinanziamento nazionale e locale sui Fondi comunitari, misura che contribuirebbe in modo rilevante a alzare la capacità di loro utilizzo.
Apprezziamo anche che – dopo anni di tagli – la legge di stabilità non preveda nel 2014 ulteriori tagli ai trasferimenti dello Stato ai Comuni e ci aspettiamo che non vi siano ripensamenti nel corso dell’esercizio. Aggiungiamo che questa giusta scelta ha bisogno di essere accompagnata dalla certezza di rifinanziamento di fondi – quali il Fondo per TPL e i fondi dedicati al Welfare – indispensabili per la erogazione e la continuità di servizi essenziali. Così come abbiamo apprezzato che si sia evitato di gravare il sistema sanitario di ulteriori nuovi tagli.
Ricordiamo ancora una volta l’impegno del Governo a garantire che il superamento dell’IMU non penalizzi i Comuni e per questo ci attendiamo che alle nostre amministrazioni siano assicurate nelle prossime settimane le risorse corrispondenti alla seconda rata IMU 2013.
E, infine, sollecitiamo le Amministrazioni statali a corrispondere tempestivamente i crediti maturati dai Comuni per spese di competenza statale, come nel caso del mantenimento degli Uffici giudiziari. Oggi non solo non vi è restituzione, ma addirittura quelle spese – di cui i Comuni si fanno carico surrogando responsabilità dello Stato – entrano nel computo del Patto di Stabilità.
Autonomia significa anche autonomia fiscale. Apprezziamo che con la introduzione della service tax si sia ripreso un percorso di federalismo fiscale,riconoscendo ai Comuni la titolarità esclusiva del nuovo tributo, superando anche in questa materia la concorrenza che ha caratterizzato  molti tributi, quali l’Imu.
Ma anche la fiscalità locale ha bisogno di essere equa e sostenibile.
Quanto alla service tax essa va configurata con modalità e aliquote che consentano ai Comuni di non vedere ridotte le risorse che avrebbero introiettato con Imu e Tares e al contribuente – sia esso famiglia o impresa – un onere inferiore alla somma di Imu e Tares. Perché sia così occorre un contributo compensativo dello Stato. La previsione, nella legge di stabilità, di 1 miliardo è un buon passo, che tuttavia non appare sufficiente. E in tal caso chiediamo al Parlamento, in sede di conversione, di innalzare quel contributo o di riconoscere ai Comuni una maggiore modularità delle aliquote.
A tale scopo, inizierà a lavorare al ministero dell’Economia un gruppo tecnico, di cui l’Anci farà parte, che accompagnerà l’iter di approvazione della legge di stabilità al fine di verificare in che modo attivare ulteriori compensazioni per garantire la copertura integrale o attraverso l’innalzamento dell’aliquota oggi fissata al 2,50 o aumentando il contributo compensativo dello Stato.
Più in generale pensiamo essenziale riprendere un percorso di federalismo fiscale capace di accrescere la responsabilità dei Comuni sia nel reperimento delle risorse, sia nella loro spesa.
Per questo sollecitiamo la riforma del catasto, così come è urgente definire nelle prossime settimane il sistema di riscossione dei tributi locali con l’obiettivo di garantire ai cittadini un corretto e trasparente rapporto con il fisco e un efficace contrasto all’evasione e all’elusione.
Abbiamo apprezzato la ripresa di un cammino di federalismo demaniale con le nuove procedure semplificate, previste nel Decreto sviluppo, per il trasferimento ai Comuni di beni demaniali. E’ una misura giusta che può consentire la valorizzazione di beni pubblici spesso dimenticati e trascurati dallo Stato e favorire politiche di investimento con mobilitazione di capitali pubblici e privati.
Una fonte di risorsa sempre più strategica sono i Fondi comunitari, grazie ai quali già negli anni scorsi si sono potuti realizzare investimenti e interventi preziosi per lo sviluppo.
Sarà così anche per il settennato 2014-2020 per la cui programmazione si stanno definendo in queste settimane priorità e strumenti. Si tratta di circa 60/65 miliardi di euro, incluse le quote di cofinanziamento, una somma che costituisce il più grande bacino di risorse con cui sostenere programmi di investimento e di coesione sociale.
Proprio per la rilevanza di queste risorse, non possiamo celare la nostra inquietudine e preoccupazione per come se ne sta discutendo utilizzo e allocazione.
Finora il confronto si è sviluppato tra Governo e Regioni, giunto fino ad un’intesa formale, senza coinvolgimento dei Comuni, quando invece la allocazione dei fondi non può prescindere dagli obiettivi e dalla programmazione degli Enti Locali.
Per questo chiediamo urgentemente di coinvolgere l’Anci al tavolo di redazione dell’Accordo di Partenariato e, in particolare, chiediamo la previsione di un Programma Operativo Nazionale dedicato alle città metropolitane.
Al tempo stesso, condividendo l’indicazione del ministro Trigilia che il 35-40% dei Programmi Operativi Regionali sia destinato alla dimensione urbana e metropolitana e che sia garantito nei POR uno spazio adeguato alle aree interne e ai piccoli Comuni, chiediamo al Governo di vigilare perché sia così.
La nostra autonomia non è mai scissa dalla responsabilità, siamo i primi a volere una politica finanziaria fondata sulla trasparenza, sulla verificabilità e sul rigore.
Non temiamo certo la spending review.
Se mai riteniamo che sia tempo di adottarla e applicarla anche alle Amministrazioni Statali, che in questi anni si sono spesso sottratte ad una seria riforma della loro spesa.
Non temiamo certo una seria verifica sui costi di ogni servizio e prestazione, ma è bene però evitare confusioni lessicali: non ha senso parlare di fabbisogni standard, perché fabbisogni, domanda e offerta variano da realtà a realtà; ha senso invece parlare di costi standard la cui individuazione è certo un utile riferimento per rendere razionale la spesa in ogni Comune.
Ma quando rivendichiamo autonomia finanziaria e fiscale, siamo anche consapevoli della necessità di rinnovare e riformare  la nostra politica delle risorse.
Almeno in due direzioni: rinnovando le modalità erogative dei servizi con il coinvolgimento di operatori sociali e privati; e allargando il perimetro delle risorse disponibili, con una più ampia mobilitazione di risorse non solo pubbliche. Gli esempi della necessità di tale cambio di passo non mancano.
In presenza di una limitata disponibilità di risorse pubbliche, la ripresa di una stagione di investimenti infrastrutturali non può che avvenire attraverso l’estensione di forme di concessione, affidamenti, project financing che attraggano e impegnino capitali privati in investimenti di finalità pubblica.
Così la possibilità di promuovere una diffusa e elevata offerta culturale  – scelta indispensabile per rendere una città, un territorio accogliente e attrattivo – richiede la attivazione di risorse non solo pubbliche, reperibili con forme di fundraising, sponsorizzazioni e mecenatismo civico che vanno incoraggiate e agevolate.
Ancora: la possibilità di mantenere una estesa offerta di servizi sociali e di welfare – dagli asili all’assistenza – discende dalla capacità di superare un modello incentrato sulla esclusiva gestione pubblica diretta, sempre meno sostenibile con le risorse di oggi. Anche qui occorre aprire – a seconda del servizio – a impresa sociale, operatori privati, terzo settore e volontariato, liberandosi dell’idea – priva di riscontri concreti – secondo cui i servizi sociali possano essere erogati in modo efficace solo dal pubblico. Ci sono molti esempi che dicono che non è così.
C’è un altro campo che richiama la nostra diretta responsabilità e che abbiamo il dovere di affrontare.
Mi riferisco alle aziende municipali e alle società partecipate dei Comuni. Un universo caratterizzato da un enorme e antieconomica frammentazione che spesso si traduce in deficit finanziari, organici sovradimensionati, servizi inefficienti, offerta di bassa qualità.
Anche qui c’è da intervenire con coraggio, superando istinti di autoconservazione, opacità gestionali, logiche di potere e pulsioni corporative.
Nessun Paese europeo offre ai propri cittadini servizi idrici, energetici, ambientali o di trasporto con modalità così arcaiche e deficitarie.
Al contrario in tutti i paesi europei si sono favoriti e incoraggiati programmi di fusioni, integrazioni e cooperazioni che hanno dato vita a players di scala nazionale e europea. E’ tempo che questo avvenga anche in Italia. Lo si deve fare superando il metodo fin qui seguito – e rivelatosi inefficace – di imporre velleitari termini temporali di dismissione (peraltro sempre disattesi o prorogati) e adottando invece un sistema di incentivi che facilitino e sollecitino processi di aggregazione e consolidamenti industriali. Per questo l’Anci ha promosso con i Ministri Zanonato  e  Del Rio un tavolo di lavoro per elaborare un progetto di riorganizzazione delle multiutilities finalizzato ad un nuovo e più razionale assetto del settore.
Non meno rilevante per la nostra attività è la gestione delle risorse umane. Anche qui i tagli e i vincoli si sono fatti sentire e hanno inciso pesantemente sulla efficienza e sulla qualità della nostra offerta. Veniamo da anni di blocco delle assunzioni e blocco del turn-over. Anche in settori nei quali la legge – è il caso delle scuole materne – richiede qualifiche specifiche che non possiede qualsiasi dipendente pubblico e a cui dunque non è possibile attendere con mobilità di altro personale.
Sappiamo bene che i vincoli di bilancio obbligano ad un contenimento degli organici. Ma questo non può essere gestito con l’imposizioni di indici percentuali astratti e vincoli normativi che non tengono conto dei reali fabbisogni delle nostre Amministrazioni.
Chiediamo – e lo chiediamo anche ai sindacati – di poter disporre di maggior responsabilità e flessibilità, a partire da una reale mobilità interna, condizione per conseguire una effettiva razionalizzazione nell’uso delle risorse. E in ogni caso efficienti amministrazioni comunali richiedono un forte e tempestivo investimento tecnologico e digitale per cogliere tutte le opportunità che moderne tecnologie offrono in termini di maggiore rapidità, minori costi, più facile accessibilità.  Per questo guardiamo con grande interesse all’Agenda digitale e ribadiamo la nostra volontà di concorrere ai suoi programmi.
Autonomia significa mettere mano ad un serio riordino dell’architettura istituzionale del nostro Paese.
Apprezziamo naturalmente che – sotto l’incalzare delle giuste sollecitazioni del Presidente della Repubblica – si sia ripreso un cammino di riforme e auspichiamo che produca quegli esiti troppe volte mancati.
E’ un banco di prova a cui né il Parlamento, né il Governo si possono più sottrarre, pena un ulteriore aggravamento del distacco fra i cittadini e le istituzioni. Troppi insuccessi hanno costellato questa lunga transizione; questa legislatura deve mettere un punto fermo su questo tema e deve metterlo rafforzando il sistema dei Comuni.
Per questo chiediamo di essere partecipi dell’azione riformatrice e indichiamo obiettivi su cui siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità.
E per dimostrare la nostra serietà vogliamo partire dalle riforme che riguardano noi stessi.
I comuni italiani sono 8mila, oltre 5mila dei quali con meno di 5.000 abitanti, dimensione che incontra crescenti difficoltà a garantire i tanti servizi di una comunità. Sappiamo bene che l’Italia è “nazione di Comuni” e che i Comuni sono il luogo della storia , dell’identità, della cultura di ogni comunità e di ogni cittadino del nostro Paese.
Ma ciò non deve rinchiuderci in un localismo asfittico.
Ne sono consapevoli prima di tutto gli Amministratori dei piccoli Comuni, alle prese ogni giorno con l’enorme divario tra le tante aspettative dei loro cittadini e le poche ed insufficienti risorse per attendervi. E non è privo di significato che, in un Paese ove  radicato  e forte è l’orgoglio comunale, cresca il numero dei Comuni che intraprendono volontariamente la strada della fusione con Comuni contermini.  Ma anche senza dover giungere alla scelta della fusione – in ogni caso sempre sottoposta a referendum dei cittadini – il nostro ordinamento si è dato uno strumento – l’Unione dei Comuni – che, mantenendo a ciascun Comune la sua identità, consente di integrare strutture e servizi a dimensioni di scala più adeguate. Per questo come Anci sentiamo la responsabilità di incoraggiare le nostre Amministrazioni a costituire Unioni, chiedendo al governo di potenziare i meccanismi di incentivazione e di semplificazione ordinamentale necessari. Così come chiediamo che si mantenga per i piccoli comuni lo strumento delle Convenzioni per la gestione associata dei servizi e riteniamo altresì ragionevole e opportuno una diversa graduazione dei termini per la gestione associate delle funzioni rispetto alla scadenza del prossimo 31 dicembre
E’ coerente con questa riorganizzazione della dimensione comunale l’istituzione delle Città metropolitane, che allinea finalmente l’Italia ad una dimensione istituzionale in vigore da anni in altri grandi paesi europei. Apprezziamo perciò che il Governo abbia varato il decreto legislativo sulla istituzione delle città metropolitane e sul riordino delle Province. Dare dimensione metropolitana al governo locale non è solo una scelta amministrativa, ma significa adeguare la dimensione istituzionale a quei  processi di integrazione economica, sociale e culturale che fanno di un territorio – quale che sia il numero dei suoi Comuni – un’area integrata omogenea.
La dimensione metropolitana peraltro esiste già ed è sotto gli occhi di tutti. Esiste nella vita delle persone, delle imprese, pone domande chiave sui trasporti pubblici e la mobilità, i servizi a rete, l’accesso ai beni comuni. Vanno rafforzati sistemi urbani capaci di attrarre  investimenti, migliorare la gestione dei servizi di trasporto, realizzare attività di coordinamento, promozione e gestione integrata dei servizi, delle infrastrutture, della ricerca e innovazione. Una Città metropolitana come una "città di città”: smart, intelligente, polo di opportunità, di lavoro, di relazione, di scambio, di progresso, di programmazione.
Una dimensione metropolitana capace di offrire rappresentanza e sviluppo a tutti i Comuni del suo territorio, quale che sia la dimensione demografica di ciascuno.
Per questo auspichiamo una rapida conversione del decreto legislativo entro il 31 dicembre prossimo, in ragione da fare decollare dal 1 gennaio 2014 l’implementazione della nuova istituzione e renderla pienamente operativa all’indomani delle elezioni amministrative della primavera prossima.
Intendiamo promuovere forme di coordinamento e di raccordo  fra Città metropolitane e Regioni per concordare e rendere omogenei gli indirizzi regionali rispetto alle competenze metropolitane nelle materie definite dalla legge.
Ed è necessario un forte sostegno per promuovere una  iniziativa strutturata e permanente di rilievo  internazionale  per realizzare e accelerare la messa in rete delle Città metropolitane con le aree forti e strategiche del mondo e in questa direzione ci impegniamo a concentrare la nostra azione per valorizzare ogni processo che possa fungere da volano per aumentare l’attrattività dei territori. E’ necessario anche che tale meta abbia il sostegno e la collaborazione del sistema imprenditoriale ed economico e del mondo del lavoro, consapevoli che questo deve essere un obiettivo condiviso e che poli urbani più forti e competitivi rappresentano un fattore di sviluppo per il Paese.
Ricordiamoci infatti che quando parliamo di Germania, parliamo di Berlino, quando parliamo di Inghilterra parliamo di Londra, e l’Ocse ci dice che il 53per cento del Pil del mondo è generato dalle 261 Città metropolitane con più di 500 mila abitanti.
Il Giubileo a Roma, le Colombiadi a Genova, le Olimpiadi invernali a Torino, l’Expo domani a Milano sono eventi che hanno come scenario la spinta propulsiva delle Città e l’impegno e l’intelligenza di chi le governa. I risultati conseguiti sono stati possibili grazie soprattutto a poteri straordinari e deroghe, a testimonianza che nel nostro ordinamento ad una esigenza reale di governo del sistema urbano non rispondono strumenti adeguati.
Le grandi aree urbane sono infatti il luogo dove si esprimono più alte le opportunità e più acute le criticità. E la vita delle grandi città coinvolge non solo i suoi residenti. A Milano risiedono un milione e 300 mila abitanti, ma ogni giorno accoglie altri 900 mila pendolari che arrivano in auto, treno, metro a cui si aggiungono i turisti, gli universitari fuori sede, gli utenti ospedalieri etc. Raddoppia la popolazione in movimento nel territorio cittadino, raddoppia la domanda di servizi, l’esigenza di risorse. Ciò rende evidente l’inadeguatezza di un’idea di governo legata ai confini amministrativi.
Un forte sviluppo delle Unioni Comunali e la nascita delle Città metropolitane consente di dare senso e contenuti anche al nuovo assetto delineato nel decreto legislativo per le Province, come istituzione di secondo grado, capace di essere luogo di coordinamento e governo per servizi di area vasta, con pieno coinvolgimento e diretta responsabilità degli amministratori comunali.
Peraltro la riorganizzazione del sistema comunale intorno a Città metropolitane e Unioni Comunali può consentire anche di riequilibrare i rapporti tra Comuni e Regioni, oggi troppo spesso, segnati da forme di centralismo regionale e di pervasività gestionale che va molto oltre le prerogative e le competenze che la Costituzione e le leggi assegnano alle Regioni. Ne è un esempio concreto la centralizzazione regionale dei Fondi comunitari, nella cui programmazione è gestione  Comuni e città sono del tutto emarginati.
A quarant’anni dall’istituzione delle Regioni e a quasi 15 anni dalla riforma del titolo V, avvertiamo la esigenza di “fare il tagliando” a quella riforma, apportando le innovazioni e le correzioni necessarie, a partire dal superamento delle troppe materie su cui si esercita una concorrenza di competenza, fonte di sovrapposizioni, inefficienze, conflitti e sprechi.
Dall’attuazione della riforma potrebbe uscire una classe politica locale rappresentata da due soli livelli eletti direttamente, Comuni e Regioni, in un rapporto  più equilibrato fra i due sistemi di potere territoriale, l’uno eminentemente amministrativo, l’altro eminentemente legislativo e con elementi di forte innovazione come le Città metropolitane.
I Comuni come perno della democrazia della responsabilità e del fare, che si affianca alla democrazia rappresentativa propria delle Camere e delle Regioni.
Il nuovo governo locale non è solo un salto in avanti nella modernizzazione del Paese; è anche la maturazione e il consolidamento di quella “democrazia dei cittadini e della cittadinanza” che è alla base della nostra Repubblica.
Democrazia matura che ha conosciuto nei Comuni con l’elezione diretta dei sindaci una conquista molto importante per il Paese. Da quella conquista molto è cambiato irreversibilmente nel nostro modo di essere e di rappresentarci nella politica italiana, ma, ed è ciò che più conta, nel governo delle nostre città e nel rapporto con i cittadini. Siamo al ventennale della legge sull’elezione diretta dei sindaci. Una conquista che ha garantito alla politica italiana un governo ordinato delle città, secondo un modello di responsabilità basato sul vaglio democratico. Una forma di governo ed un sistema di elezione  che rappresenta una esperienza a cui guardare anche per l’assetto nazionale, atto a garantire un principio di alternanza fra orientamenti contrapposti, un principio di responsabilità per ciò che si è fatto, ed un dosato equilibrio fra non reversibile leaderizzazione da una parte ed elaborazione di un progetto politico ampio capace di contenere contaminazione e ideali articolati.
Al tempo stesso appare ormai matura una riflessione su come rimodulare il sistema della rappresentanza consiliare e della governance comunale: sia nella direzione di una verifica della adeguatezza dell’attuale composizione degli organi nei piccoli Comuni, sia nella ridefinizione dei rapporti tra Consigli e Giunte.
Rimane in ogni caso una priorità perseguire l’obiettivo di una parità nella rappresentanza di genere, dando piena attuazione alle norme introdotte recentemente per favorirla.
E, infine, chiediamo che anche la riforma dell’assetto parlamentare sia coerente con la ripresa nel cammino autonomistico, con la effettiva trasformazione del Senato in un’Assemblea dei poteri locali,  capace di rappresentare e perseguire con equilibrio ed efficacia le istanze delle articolazioni territoriali e di farle protagoniste della vita nazionale. Un’ assemblea in cui le istituzioni comunali abbiano adeguata rappresentanza. E – mentre esprimiamo apprezzamento per il disegno di legge costituzionale presentato dal Governo – non nascondiamo una certa inquietudine per l’emergere di proposte che ci appaiono eccessivamente condizionate dall’attuale assetto bicamerale.
L’apertura di una nuova stagione nei rapporti tra Enti Locali e Stato richiede di sciogliere il nodo più duro.
Mi riferisco alla necessità di una radicale sburocratizzazione e un drastico disboscamento della giungla normativa in cui si impiglia immediatamente qualsiasi possibilità di modernizzazione e riforma.
Uno dei mali acuti e strutturali dell’Italia è l’iperformalismo giuridico che pretende di tradurre tutto in norme e leggi.
Ne deriva una quotidiana stridente contraddizione tra le domande della società – domande di tempestività, semplicità, accessibilità – e una pubblica amministrazione percepita e vissuta come sorda, chiusa, quando non arrogante e presuntuosa.
Una contraddizione che è divenuta una delle principali ragioni di diffidenza e ostilità dei cittadini verso lo Stato e le pubbliche amministrazioni.
Ma è una contraddizione di cui soffriamo anche noi Sindaci.
A chi strumentalmente alza l’indice accusatore verso l’Unione Europea e i suoi vincoli, noi diciamo con chiarezza che i veri vincoli opprimenti per i Comuni derivano in primo luogo da un’amministrazione statale invasiva e pervasiva che emana prescrizioni, impone vincoli, statuisce norme che rappresentano una continua mortificazione della nostra autonomia e della nostra responsabilità.
Noi proponiamo di adottare un metodo europeo. L’Unione Europea indica obiettivi di convergenza e macro-parametri da rispettare. Non si arroga il diritto di dire agli Stati membri come debbano essere organizzati, né dove debbano allocare le risorse, né quali leggi il Parlamento debba approvare.
Bene. Faccia così anche lo Stato italiano. Ci dica quali sono gli obiettivi e ci indichi i saldi che si debbono conseguire. Per il resto lasci alla nostra responsabilità di amministrare i nostri Comuni.
Anche perché spesso chi pretende di spiegarci quel che dobbiamo fare, non ha mai visto un Comune, nè l’ha mai diretto.
D’altra parte è significativo che ogni provvedimento di cosiddetta “semplificazione” si trasformi in realtà ogni volta in occasione per accrescere il cumulo di norme e di prescrizioni a cui attendere.
Prescrizioni che spesso contraddicono – senza sopprimerle – norme esistenti con la conseguenza di accrescere vincoli, costi e inefficienze.
Insomma: è tempo – non più procrastinabile – di una vera rivoluzione. Ma – occorre essere chiari – non si conoscono rivoluzioni senza eccessi.
All’Italia serve una “rivoluzione deregolativa” che – scontando anche qualche eccesso – riduca drasticamente i troppi adempimenti che soffocano la vita dei cittadini e delle amministrazioni locali.
Per questo sollecitiamo la conclusione della redazione del Testo Unico della Legislazione Comunale, che consenta di rendere coerente e organico un quadro normativo via via dissestato dalla continua sovrapposizione di nuove norme e leggi.
Al tempo stesso proponiamo che si dia vita ad una task force – costituita da Anci, Ministero della Funzione Pubblica, Ministero delle Autonomie e Ministero dell’Economia – con l’obiettivo di rivisitare la legislazione vigente eliminando tutte le norme che appaiono superflue e contraddittorie con un quadro istituzionale fondato sul riconoscimento dell’autonomia degli Enti Locali.
Se con tanta determinazione sollecitiamo autonomia e risorse è perché oggi siamo chiamati non solo ad assolvere ai nostri compiti di istituto, ma ad affrontare criticità che investono – spesso drammaticamente – la vita delle nostre comunità.
In primo luogo la condizione  di precarietà dei giovani. Mai nel nostro paese gli indici di inoccupazione giovanile sono stati così alti. Uno su tre nel Nord, 1 su 2 nel Mezzogiorno.
Si gioca l’avvenire dei nostri figli, di generazioni che oggi appaiono senza orizzonte e a cui invece vanno restituiti fiducia e slancio. Vanno ricostruite tutele e aspettative e in tutte le sedi va riaffermata la dignità e nobiltà del lavoro e dell’impegno e sacrificio per ottenerlo. In una società aperta non va demonizzata la scelta di quei giovani che cercano opportunità di vita all’estero a patto che a quei giovani si offrano opportunità di ritorno e a patto che anche le nostre Università, i nostri centri di ricerca siano capaci di attrarre intelligenze meritevoli, provenienti da altre culture. La contaminazione è una delle strade da percorrere per lo sviluppo del Paese.
Il dramma del lavoro rischia di acutizzarsi per i giovani, aggravando la fatica di creare una famiglia, di diventare genitori, di essere cittadini della Repubblica, in una condizione di certezza, stabilità, libertà  e dignità.
Il lavoro deve essere il nostro assillo, deve essere l’assillo della politica. Ogni euro disponibile dovrebbe essere indirizzato a creare lavoro, a ridurre il costo del lavoro, ad attenuare il peso della crisi sulle famiglie e sui singoli. I provvedimenti assunti dal Governo, – come la “Garanzia giovani” – e altri annunciati dal Ministro Giovannini che ringrazio per la sua determinazione, danno il segno di uno spiraglio.
Ed è parte di una strategia per il lavoro investire in sapere, conoscenza, formazione. Quanto più un giovane sa e sa fare, tanto più potrà scegliere tra diverse opzioni di vita. Investire sul sapere è investire sul futuro.
Una vera emergenza che richiede uno sforzo straordinario, mobilitando risorse pubbliche e private, predisponendo strumenti straordinari, mettendo a disposizione dei Comuni fondi che consentano di attivare percorsi di accompagnamento al lavoro e di accesso a attività e professioni.
Una seconda acuta criticità è l’emergenza abitativa che investe una  quantità di famiglie sempre più vasta. Un’emergenza che non può più essere gestita con la continua reiterazione del blocco degli sfratti.
Serve rimettere in moto un vasto piano di housing sociale, tornare ad investire sull’edilizia popolare, predisporre un piano per l’acquisto  a condizioni agevolate.
Attività che non possono essere realizzate solo con risorse pubbliche. C’è in questo campo uno spazio ampio per sollecitare e mobilitare capitali privati di banche, assicurazioni, imprese, casse previdenziali, fondi pensione, fondi di investimento. E c’è uno spazio perché la Cassa Depositi e Prestiti  assolva ad una gestione di regia a cui possa riferirsi nei suoi programmi ogni Comune.
E da qui rinnoviamo la sollecitazione alla ripresa di una programmazione di investimenti in sede Cipe e lo sblocco dei fondi previsti per il Piano Città.
Le drammatiche vicende di Lampedusa richiamano la responsabilità delle istituzioni e dell’intera società italiana ad un salto di qualità nel gestire accoglienza e integrazione.
Da un alto è tempo di prendere finalmente atto che l’immigrazione è una componente strutturale della nostra demografia, che per questo richiede dunque robuste politiche di integrazione.
Per altro verso quel che accade nei paesi del nord Africa ci propone un’emergenza che – per dimensioni e reiterazione – mette a dura prova le strutture fin qui predisposte per l’accoglienza dei profughi.
In entrambi i casi sono i Comuni ad essere direttamente investiti e non è più sostenibile – come è accaduto per anni e come ancora spesso accade – chiedere loro di farsi carico senza la messa in campo di una quantità di risorse adeguate e un quadro normativo – a partire dalla legge di cittadinanza e da nuove norme su asilo e profughi – adeguati alle sfide umane che anche in questo campo la globalizzazione ci propone.
Peraltro proprio in queste settimane i Comuni hanno dato una dimostrazione di disponibilità concorrendo ad ampliare da 3mila a 16mila la ricettività dei programmi Sprar per richiedenti asilo e profughi. Apprezziamo altresì che sia stato istituito il Fondo nazionale per i minori stranieri non accompagnati e ne auspichiamo un ampliamento della dotazione.
La crisi ha acuito i fattori di precarietà e di insicurezza nella vita di milioni di famiglie, esposte ai rischi di un lavoro meno sicuro, di un reddito più magro, di un futuro dei figli ancora più incerto.
Una situazione che espone tante persone e tante famiglie ad una condizione di solitudine, che abbiamo il dovere di contrastare.
Ancora una volta in prima linea ci siamo noi Sindaci, destinatari di una crescente domanda di aiuto, di sostegno, di coesione e di certezze.
 
Serve una “Misura nazionale di contrasto alla povertà”, perseguita in primo luogo attraverso l’estensione e il consolidamento delle due sperimentazioni del “Programma Carta Acquisti” (nei comuni con più di 250 mila abitanti e nei territori del Mezzogiorno) allo scopo di generalizzarle come strumento di contrasto alla povertà su tutto il territorio nazionale all’interno del sistema integrato locale di interventi e servizi sociali e sotto la “regia” dei Comuni.
Va monitorata poi l’applicazione della riforma dell’Isee, strumento selettivo che, in una situazione di diminuzione delle risorse, deve consentirci di destinare in modo più equo risorse e prestazioni.
E, infine, non è più rinviabile l’individuazione e l’avvio di un Piano nazionale di sostegno alle non autosufficienze, attraverso un progetto organico, ancorché a realizzazione progressiva, di individuazione e finanziamento di livelli essenziali, garantiti su tutto il territorio nazionale, di prestazioni e servizi.
Ma una risposta adeguata non si esaurisce nel gestire soltanto le criticità più acute.   
E’ una politica per le famiglie ciò di cui il Paese ha bisogno.
Una politica capace di offrire certezza di diritti e uguaglianza di opportunità alle famiglie, così come alle tante modalità di convivenza con cui oggi si manifesta la scelta di vivere amore e affetti.
E, infine, vorrei richiamare a tutti voi la criticità più acuta di cui risente ancora il nostro Paese. Mi riferisco al riemergere con ancora più drammaticità di un Paese a due velocità, che conosce un divario sempre più grande tra un nord che vede messa a dura prova il suo vasto tessuto produttivo e un sud sempre più privo e deprivato di prospettive di crescita, di lavoro, di coesione sociale.
Una situazione che corrode nel profondo il rapporto tra i cittadini e istituzioni, mina il sentimento di comune appartenenza, sollecita ripiegamenti corportativi sociali e territoriali, indebolisce la capacità di mobilitazione delle energie e delle risorse del Paese.
I dati presentati nel Rapporto Svimez sono inquietanti con una disoccupazione che nel Mezzogiorno sfiora ormai il 30% e una riduzione strutturale del tessuto produttivo – si pensi al caso Ilva – che sta desertificando parti del territorio, accentua la pressione sulle amministrazioni locali. Non possiamo rimanere inerti, né possiamo immaginare che fenomeni così significativi possano essere arrestati con misure limitate. 
Si impone un sussulto di consapevolezza e una reazione al diffondersi di una rassegnazione disperata. E’ una responsabilità in primo luogo del Governo e del Parlamento. Ma richiama anche la responsabilità dei poteri locali.
Nessuna di queste criticità – disoccupazione giovanile, immigrazione, emergenza abitativa, povertà sociale, Mezzogiorno – può essere adeguatamente affrontata senza un pieno  e attivo protagonismo dei Comuni. Il che ancora una volta conduce alla necessità di investire con fiducia sui Comuni, riconoscendo loro autonomia e risorse.
In questa prospettiva di rinnovamento istituzionale e di straordinario rafforzamento del sistema dei Comuni, anche la nostra Associazione deve vedere adempiere fino in fondo alla propria funzione naturale e precipua di rappresentanza istituzionale. L’Associazione deve definitivamente diventare lo snodo permanente ed unitario degli interessi locali nell’interlocuzione con gli altri livelli istituzionali ed in primo luogo con Parlamento e Governo.  
Le nostre parole d’ordine sono unità, responsabilità, competenza e autorevolezza. Un’Associazione che esalti il ruolo di rappresentanza e che goda della credibilità e della fiducia dei sindaci e degli amministratori, riconoscendo adeguato spazio in tutte le istanze dell’Associazione ai Piccoli Comuni, che rappresentano 2/3 dei Comuni italiani.
Un’Associazione capace di fare sintesi fra le diverse sensibilità politiche ed ideali in nome dell’interesse prevalente quello dei Comuni e dei nostri cittadini.
Un’Associazione che – valorizzando le sue strutture regionali e territoriali – dia voce ed attenzione a tutti i Comuni piccoli, medi e grandi, aventi la stessa dignità, così come ciascuno di noi sindaci ha le stesse responsabilità quando guarda negli occhi un proprio cittadino.
Un’Associazione con un gruppo dirigente che sappia fare squadra e mi impegnerò sempre di più affinché la squadra sia coesa e vincente. Così come mi impegnerò ad ascoltare la voce di tutti voi, a chiedere il vostro contributo di esperienza e di intelligenza.
Cari Sindaci, saranno giornate intense; parleremo dell’Italia, ci confronteremo con i protagonisti della vita politica, economica e sindacale. Approfondiremo e ci misureremo con i problemi di oggi, con le sfide che ci attendono, discutendo del contributo che vogliamo dare. Parleremo di un impegno politico e civile rinnovato che, anche grazie al nostro esempio e richiamo, sappia interpretare la società e i suoi mutamenti.
Il nostro auspicio è che l’Anci possa concorrere a definire una visione del futuro del Paese, che sappia unire ed indicare le strade per affrontare sfide alte: superare la crisi economica ed occupazionale e i suoi insopportabili costi sociali con proposte che a partire dei Comuni siano volano per la crescita; garantire ai cittadini quei servizi e quelle prestazioni che rafforzino la coesione sociale e la dignità di ciascuno; affermare un ruolo rinnovato dei Comuni in un assetto istituzionale più semplice e moderno per lo sviluppo e la tenuta sociale delle comunità; contribuire al superamento di una crisi di sistema che vede oggi incrinato il rapporto fra istituzioni e cittadini, che manifestano un bisogno di partecipazione che stenta a trovare adeguata cittadinanza politica.
l’Italia ha speranza, ha forza per andare avanti se le sue istituzioni hanno la capacità di guardare lontano, di fare uno sforzo di generosità e di impegno civile prima ancora che istituzionale.
Noi sindaci abbiamo questa forza. Non possiamo però essere soli.
E’ giunto il momento di darsi istituzioni rinnovate e più forti, capaci di costruire uno Stato nuovo e dinamico.
Questo non è solo un nostro dovere di italiani; è anche un nostro diritto quali rappresentanti dell’Italia più vera e più concreta.
I Comuni chiedono fiducia e meritano fiducia: il Paese può contare su di noi e noi vogliamo poter contare sempre più sul nostro Paese.
Da questa crisi si esce tutti insieme, guidando il cambiamento con atti e decisioni capaci di dare una  risposta al malessere sociale. Noi siamo e vorremmo essere sempre più, la buona politica, la politica del fare e dell’agire. La politica al servizio dell’Italia.