- Marzo 17, 2017
Notizie
Libri – Polis, Associazionismo per rilanciare i centri storici intervista a Giovanni Dozzini
Giovanni Dozzini è un giovane scrittore umbro, giornalista e traduttore. Il suo ultimo ...Giovanni Dozzini è un giovane scrittore umbro, giornalista e traduttore. Il suo ultimo romanzo si intitola La scelta (Nutrimenti editore) e racconta un episodio controverso dell’ultima guerra: il salvataggio di una colonia di ebrei durante l’occupazione nazista da parte degli abitanti del Trasimeno.
Il nostro pianeta sta sempre più urbanizzandosi: ormai, per la prima volta nella storia dell’umanità, il numero di chi vive nelle città ha superato quello della popolazione rurale. E, se l’attuale tendenza sarà confermata, alla metà del secolo corrente circa i due terzi della popolazione vivrà in ambito urbano. Come valuti il fenomeno? Davvero “l’aria delle città rende liberi”?
Non più, temo. Perlomeno nella misura in cui le aree urbane che punteggiano il mondo occidentale non riescono a garantire lavoro, o lavoro con salari dignitosi, come facevano fino a una decina d’anni fa. L’uomo è libero quando ha la possibilità di scegliere, e vivere senza risorse economiche e strumenti culturali adeguati in città che pure potrebbero offrire molteplici opportunità di consumo materiale e immateriale implica la negazione di questa possibilità, risultando alla fine particolarmente frustrante. Ora come ora le città, nella loro prospettiva di crescita, rischiano piuttosto di essere ricettacoli e alimentatori di degrado e velleitarismo.
Negli anni ’20 Le Corbusier pensava la modernità come espansione, mezzo secolo dopo Insolera dice che la modernità è darsi un limite. Nella città immaginaria di Zoe (nelle Città invisibili di Calvino) priva di qualsiasi confine, interno ed esterno, si finisce con lo smarrirsi. Insomma ci vogliono i limiti e i confini (ammesso che si tratti della stessa cosa)?
Ci vuole una visione. Una diversa e specifica per ciascuna città. A me pare che, perlomeno nell’Italia dal Dopoguerra in qua, l’espansione delle città sia stata per lo più concepita soprattutto come un accrescimento standardizzato di un benessere comune solo presunto e tendenzialmente senza identità, se non come opportunità di speculazione: la casetta in periferia con giardino e garage, la macchina col leasing, il centro commerciale dietro l’angolo. E i centri storici svuotati o trasformati in parchi divertimento per turisti. D’altronde la mancanza di visione a lungo termine è forse il principale vizio della nostra classe dirigente, a partire da quella politica e da quella imprenditoriale.
Il rapporto con il passato, con le opere architettoniche del passato e i siti archeologici, è oscillante tra imbalsamazione e assenza di memoria: città come parco a tema per turisti, i Grandi Eventi come riverniciatura superficiale…Ad es. ritieni che il Comune dovrebbe salvare negozi e caffè di valore storico, come fanno a Parigi?)
È una questione delicata. Nella mia città, oggi, in pratica non esistono locali di valore storico. Forse un intervento del genere poteva essere fatto prima. Oramai, perlomeno a Perugia, anche volendo sarebbe tardi. Io credo che però le amministrazioni comunali abbiano il dovere di calmierare, con misure di vario genere, le logiche selvagge del mercato duro e puro. Esercitando il loro potere di persuasione nei confronti dei proprietari degli immobili del centro storico per abbassare gli affitti, per esempio, e in quelli degli istituti bancari per favorire l’apertura di credito a nuove attività capaci di portare innovazione in armonia con la tradizione e gli assetti architettonici e sociali del luogo. Ma il rilancio dei nuclei storici delle città passa secondo me attraverso l’incoraggiamento di nuove forme di associazionismo e iniziative nate dal basso come reti tra i cittadini. Tornando a Perugia, questo genere di fermento è stato probabilmente l’elemento più positivo riscontrabile negli ultimi cinque anni. Anche se al momento quella spinta propulsiva sembra essersi un po’ esaurita.
Oggi occorre una nuova rappresentazione e un altro racconto per tentare di costruire una qualche idea comune e adeguata del vivere in città. Chi potrà costruirla? Urbanisti? Amministratori? Scrittori? Artisti? Sociologi?
Sarà banale, ma servono tutti questi soggetti insieme. Che in prima istanza dovrebbero però fare soprattutto un lavoro di ascolto, di mappatura delle risorse e delle aspettative diffuse nelle singole comunità. Ogni città, ripeto, fa storia a sé, ogni città dovrebbe immaginare per se stessa un proprio futuro possibile. Una volta raccolte le istanze, le idee, le proposte, queste andrebbero quindi combinate col pensiero strutturato e dovuto alla conoscenza e all’esperienza dei vari soggetti coinvolti, tra i quali io annovererei anche esponenti illuminati del settore sanitario (il mondo sarà sempre più popolato da donne e uomini bisognosi di cure e di infrastrutture adeguate alla loro condizione). Da quest’elaborazione io credo possa nascere un modello di sviluppo originale, elastico e progressivo. (flp)